Vi proponiamo di seguito la riflessione del nostro direttore, Sergio Durando, pubblicata sul settimanale diocesano La Voce e il Tempo il 27 maggio. Moussa Balde, 23 anni, veniva dalla Guinea Conakry: si è impiccato lo scorso 23 maggio nel CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di corso Brunelleschi. Lunedì 31 maggio alle 19 nella chiesa dei Santi Martiri a Torino l’Arcivescovo Nosiglia presiede una preghiera in suffragio del giovane.
Si muore durante il viaggio. Si muore cercando di oltrepassare le frontiere. Si muore nelle acque del mare. Si muore assiderati di notte sulle montagne nel passaggio tra l’Italia e la Francia. Le frontiere, che per alcuni significano protezione, per altri sono il simbolo del passaggio alla morte.
Si muore «lentamente» nell’indifferenza generale, si muore anche quando finalmente si è «arrivati» e il viaggio sembra finito, ma non si «arriva» mai. Muoiono le persone che diventano invisibili, muoiono le persone che continuano a subire violenze fisiche e strutturali. Muore chi non ha un «posto», chi non ha diritti.
A Torino Musa Balde, 23 anni, originario della Guinea Conakry, era in attesa di un rimpatrio che avrebbe messo fine ad un sogno, ad un progetto, ad un investimento. Musa ha interrotto l’attesa impiccandosi con le lenzuola della camera dove si trovava in isolamento per motivi sanitari. Fine! Il suo gesto ci dice che ha considerato il suicidio l’unico modo per uscire da un Centro che gli negava la libertà e il futuro. Ha voluto mettere fine a una sofferenza divenuta per lui «insopportabile».
La morte di Musa apre uno tra i tanti interrogativi scomodi per il nostro Paese e per il nostro ordinamento giuridico, su come l’immigrazione viene gestita, sui costi «economici» e «umani» di certe «strutture di morte». Ancora una volta perde la vita un giovane in cerca di un futuro dignitoso, la cui speranza si è frantumata con il diniego del riconoscimento dei documenti. In questi casi subentra la povertà e la vulnerabilità di chi diventa «irregolare» e si ritrova per strada. Lo sguardo di pregiudizi, diffidenza, indifferenza lo si percepisce addosso, su un corpo privato di dignità.
Per Muse la strada ha significato subire la violenza pesante di tre uomini a Ventimiglia. Ha vissuto sul suo corpo la rabbia di bastonate, calci, colpi e ha visto con i suoi occhi un mondo al contrario, dove la vittima viene rinchiusa in un Cpr (Centro di permanenza e rimpatrio) e i carnefici lasciati liberi. Forse il vissuto di Muse gli ha tolto la naturale capacità di reazione e di resilienza di questi giovani ragazzi. Forse faceva parte di quella nuova categoria di soggetto «fragile», «vulnerabile» con un marcato malessere psicologico. Chissà?!
La Procura di Torino ha avviato accertamenti sul caso. È arrivata l’accusa del Garante nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale, Mauro de Palma, sul fatto che nel Cpr di corso Brunelleschi, a Torino, non sia stato seguito in modo adeguato.
La vita, così come la morte, richiede rispetto. L’Arcivescovo Cesare Nosiglia in più occasioni ci ha ricordato come questi gesti obbligano tutti a riflettere sulle ferite interiori che segnano il percorso di molti immigrati.
Lunedì 31 maggio ai Santi Martiri si terrà una preghiera per Musa, per esprimere dolore e «compassione», affidare la sua anima a Dio che certamente è per la vita e saprà «restituire» senso e dignità a questo figlio.
Per tutti noi, credenti o non, appartenenti a diverse confessioni, innamorati dei Testi Sacri, della Costituzione e convinti che i diritti umani siano inalienabili e non negoziabili, si aprono laceranti interrogativi e sfide a cui non possiamo più sottrarci. Viviamo in un’Europa che alza i muri, che criminalizza lo straniero per il fatto di essere straniero, che provoca una violenza sempre più manifesta. Viviamo in un Paese che «produce» irregolari (sono oltre 600 mila) e che alimenta una cultura dello scarto sempre più cinica, un mondo indifferente a chi vorrebbe urlare la sua disperazione, ma non ha voce.
Come Musa, quanti disperati vivono accanto a noi? Come riuscire allora ad essere più umani, a farci prossimi ai nostri fratelli, superando stereotipi e paure? È possibile invertire la rotta con piccoli gesti quotidiani. A partire dal saluto offerto nell’incontro casuale con l’altro, un sorriso, uno sguardo dolce e comprensivo e qualche parola scambiata con chi sta in strada, per fargli ricordare che esiste e che è un essere degno. Porgere la mano in segno di aiuto e offrire le proprie conoscenze per indirizzare la persona che è in cerca di aiuto. Dall’altra, chi ne ha la possibilità, dovrà continuare a fare informazione, sensibilizzare, contrastare la violenza con la denuncia, opponendosi alle strutture di morte e chiedendo alla politica «scelte» coraggiose perché ogni uomo sia portatore di una dignità inviolabile. Perché la cultura «del ribasso» non diventi un alibi per nessuno e perché finalmente la presenza dei nostri fratelli e sorelle stranieri diventi motivo di investimento del nostro Paese e non voci di spesa a perdere.
«Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26).
Sergio Durando