Sbang: creatività e migrazione

Un convegno nel salone dell’Ufficio Pastorale migranti per parlare di cultura, identità, creatività, incontro con l’altro

La vita è l’eccezionale palcoscenico su cui performiamo.

Ognuno canta la sua canzone e lascia la scena.

Il palcoscenico continua a permanere nel tempo.

Vitale è quella canzone di cui la gente si ricorderà.

(Jaleh Estabani, poetessa iraniana)

Quando si parla o si scrive di migrazioni o di migranti, quasi sempre ci si sofferma ad affrontare gli aspetti problematici, le difficoltà di inserimento, di ricerca del lavoro, di accesso ai documenti, la faccia feroce dell’autorità, le frontiere chiuse. Cose tutte purtroppo verissime, come confermano anche i numeri dei passaggi all’Ufficio Pastorale migranti nell’ultimo anno: in 7000 hanno usufruito dei servizi di ascolto, evidenziando fatica, povertà, vulnerabilità.

Vale però la pena dedicarsi anche ad altri aspetti, in particolare alla presenza dei migranti come arricchimento e incontro tra culture. Non a caso “Sbang Le espressioni creative della mobilità umana” tenutosi lo scorso 15 febbraio nel salone dell’Ufficio Pastorale migranti, si è aperto con un intervento musicale. Mohammadreza Mohitmafi, studente di Green Engineering al Politecnico di Torino, in Italia da tre mesi, ha suonato il tanbur, un antico strumento musicale a corda usato soprattutto in Iran, intrattenendo il pubblico con le sue note.

La discussione è partita dai dati dell’ultimo Rapporto sulle migrazioni, quello del 2023, che la Caritas pubblica annualmente da ben 32 anni. I dati, spiega, Simone Varisco, tra i curatori della pubblicazione, sono la base per sapere di che cosa stiamo parlando, per conoscere le dimensioni e i contorni di un fenomeno, molto spesso mal percepito o agitato come uno spauracchio.  Purtroppo, aggiunge Varisco, l’aspetto culturale nel nostro rapporto non è ancora ben studiato, anche se da qualche anno cominciamo ad avere i dati sulla frequenza scolastica e universitaria, che possono rappresentare un punto di partenza.

I dati Istat relativi al 2023, che al momento della pubblicazione del Rapporto non erano ancora disponibili, dicono che in Italia vi sono oltre cinque milioni di cittadini stranieri regolarmente residenti, in crescita di circa 100.000 rispetto al 2022, numero che rappresenta il saldo tra chi arriva, chi parte (un numero non indifferente) e chi, nel frattempo, ha acquisito la cittadinanza italiana.

Negli ultimi sei anni 1.000.000 di persone sono diventati cittadini italiani e i residenti con background migratorio, italiani o no, sono intorno ai 7.000.000. Romania, Marocco e Albania continuano a essere i paesi più rappresentati, anche tra le seconde generazioni; tra chi proviene dall’Asia, ultimamente sono aumentate le provenienze da Pakistan e Bangladesh e diminuite quelle da Filippine e Cina.

Quanto agli studenti universitari, gli studenti non cittadini italiani sono il 6%, ma di questi il 3% ha un diploma di scuola superiore italiana, segno quindi che si tratta di ragazze e ragazzi che hanno frequentato le scuole in Italia, o sono addirittura nati qui, ma che per la legge non sono considerati cittadini italiani. Varisco termina con una considerazione di tipo culturale, ovvero di come da dieci anni a questa parte sia cambiato il linguaggio nei confronti del fenomeno migratorio. Dal naufragio di Lampedusa (2013) a quello di Cutro (2023) il linguaggio per descrivere gli eventi, da umanitario e accogliente, soffermandosi sulle vittime, la loro identità e la loro storia, si è fatto securitario e legalitario, soffermandosi sulle responsabilità della tragedia, sul ruolo della Guardia costiera, o di Frontex, ma sorvolando sulle persone che hanno perso la vita, sui parenti che sono venuti a riconoscerli…

Reza Nabibakhsh è un “aspirante antropologo” precisa lui. Inizia mostrando un’opera di un artista siriano, Tammam Azzam in cui “Il Bacio” di Klimt è sovrapposto all’immagine del muro di una casa crivellato dai proiettili. L’artista siriano popone un parallelo tra grandi capolavori dell’arte e distruzione della guerra, quasi a voler dire che l’arte mantiene viva la speranza. Nabibakhsh invita poi i presenti a riflettere su alcune parole chiave: antropologia, cultura, creatività, comunicazione, arte. Su quanto ognuna di queste parole presuppongano una relazione tra almeno due soggetti e di come ogni fenomeno culturale nasca da un incontro.

Magdalena Kubas, ricercatrice polacca, spiega come non esista un’identità, ma che ognuno di noi ha più identità. Io sono polacca, dice, ma non solo questo, sono anche una ricercatrice, studio il modo come le persone apprendono. Partecipa al progetto Scienza migrante cui lavora anche Carola Manolino, che raccoglie storie ed esperienze di giovani che da altri paesi sono venuti a studiare e a fare ricerca in Italia. Oltre al portale che raccoglie diverse storie, organizzano incontri mensili.

Rasid Nikolic
Mohammadreza Mohitmafi

Rasi Nikolic insegna all’Accademia di Belle Arti, è un marionettista, serbo, bosniaco, italiano, rom, per dire alcune delle sue varie identità. Sua madre è bosniaca, musulmana, suo padre serbo e ortodosso. Lui e la sorella sono arrivati in Italia nel 1993, per sfuggire alla guerra. Rom, spiega Nikolic vuol dire “essere umano”. Si tende a identificare i rom con gli zingari e a pensare che siano nomadi, ma non è affatto così. I rom rappresentano circa lo 0,25% della popolazione in Italia, mentre chi vive nei campi nomadi sono in tutto 26.000, una minoranza della minoranza. Niholic è un attivista, nel senso che “voglio far conoscere la cultura rom”; anche il suo lavoro, costruire marionette, ha che fare con la tradizione rom del racconto orale attraverso gli oggetti, dello spettacolo itinerante, del circo e delle arti circensi. In tutta la scuola italiana ci sono soltanto 3 docenti rom e Nikolic è uno di questi…

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